Dopo aver riposto gli scatoloni del trasloco in valle ed
abbandonato la residenza torinese, sgambetto in sella alla TOBike per
tutta la città sbrigando le ultime commissioni pre-partenza. Si sale
sull'inter-regionale veloce verso Milano Centrale. Sul treno incontro
un diciottenne -o giù di lì- con una spadona da collezionismo
uscita da Kill Bill, i soliti tizi strambi dal profilo arcigno tipico
del pluriomicida ciondolanti senza motivo alcuno su e giù per i
vagoni -alla faccia del dottor Lombroso- fino all'arrivo, in
compagnia della lettura in salsa Salza di “Niente”, alla stazione
di fine corsa.
Incontro e chiacchiero con un'amica
fino alla fermata della navetta per il “deserto di Linate”
nell'aria fresce ed umida di Mediolanum. Arrivato all'aeroporto
gironzolo facendo qualche foto notturna per poi accasciarmi insieme
ad altri sfortunati viaggiatori sulle panchine ballerine della hall.
Inizia l'attesa di sei ore composta da: spuntino con panino al crudo
-per qualche ragione penso a Bertolino che imita Fassino-; sonnellino
piegato su un lato con un raggio di 55,5 gradi dalla sedia al
bagaglio, osservazione di due donnone -o meglio maman
africaines- dietro
un desk informazioni
che mangiano dolciumi senza alcuna funzione informativa;
pregustamento del sole brasileiro immerso nel silenzio di tomba delle
3 del mattino dell'hinterland
milanese. Rimugino su “The Terminal”, al povero Tom Hanks in
aeroporto per giorni (povero lui!) e mi tiro su di morale comprando 3
bottigliette d'acqua naturale a 1,50 euro l'una (fuck!) per placare
la forte sete causata dal prosciutto crudo da voi già conosciuto.
Finalmente si apre il check-in, Dopo
avere imballato a soli 10 euro il primo bagaglio, sono costretto ad
imbarcare anche il piccolo trolley da viaggio poiché troppo pesante (tradotto, 20 euro per della plastica verde).
Come scatterò immagini senza tutta quella robaccia fotografica ahimè
troppo pesante? Chiederò a tutti i passanti di farmi una foto ed
inviarmela via mail, ovvio! Nella solita noia tipica dell'attesa al
gate ascolto un gruppo
di vecchietti intenta ad imparare il portoghese riflettendo
successivamente sui disastri causati dalle compagnie di volo low-cost
«sempre
più intente a tagliare le spese di manuntenzione».
Spero in cuor mio di poter viaggiare come loro, superati i
60 anni, sparlando liberamente del più e del meno con la leggerezza
che solo i veterani possono permettersi.
Sorge il sole su Milano. Prendo il
volo assalito da un sonno selvaggio derivante dalle pochissime ore di riposo di questa settimana. Mi addormento risvegliandomi in tre tempi
per notare le montagne innevate della Sierra, il mare immerso tra le
nuvole candide e le hostess che sfilano via mentre rischio di perdere
una sorta di brunch
portoghese composto da tortino al formaggio, caffè scuro e yogurt
alla fragola. Arrivo a Lisboa alle 9.32 con un'ora di fuso guadagnata
dall'A319 che rompe le nubi ora simili ad una banchina di ghiaccio
polare. Un volo pindarico bene assestato pieno della poesia di un
momento in cui qualcosa sta cambiando in tempo reale, lasciando nel
cassetto le lune nere di qualche maga fuori di testa.
La città di Lisbona pare uscita dal gioco da tavola "Hotel" con, in più, un lungo ponte stile San Francisco che sorvoliamo ad altezza molto ravvicinata. All'imbarco 45 mi occupo della stesura bloggeristica, delle prime foto pseudo-turistiche mentre un donnone platinato con cagnetto bianco al braccio va su e giù per il gate mostrando un enorme tribale tra schiena e culo accompagnato da due bambini rumorosi che urlano modugnescamente: “Volaaaaree, oh oh cantaaaare, oh oh oh!”. Dopo il solito pranzetto (carne e patatine e insalatina con salsa agrodolce) offerto in volo sull'oceano sorvolando Tenerife e molta, molta acqua, mi dedico alla visione del magnifico “Cesare deve morire”. Film girato a Rebibba con attori non professionisti costretti a tornare nelle loro celle a fine scena, prodotto dalla Sacher di Nanni Moretti. Brividi e pelle d'oca, da vedere e consigliare.
La città di Lisbona pare uscita dal gioco da tavola "Hotel" con, in più, un lungo ponte stile San Francisco che sorvoliamo ad altezza molto ravvicinata. All'imbarco 45 mi occupo della stesura bloggeristica, delle prime foto pseudo-turistiche mentre un donnone platinato con cagnetto bianco al braccio va su e giù per il gate mostrando un enorme tribale tra schiena e culo accompagnato da due bambini rumorosi che urlano modugnescamente: “Volaaaaree, oh oh cantaaaare, oh oh oh!”. Dopo il solito pranzetto (carne e patatine e insalatina con salsa agrodolce) offerto in volo sull'oceano sorvolando Tenerife e molta, molta acqua, mi dedico alla visione del magnifico “Cesare deve morire”. Film girato a Rebibba con attori non professionisti costretti a tornare nelle loro celle a fine scena, prodotto dalla Sacher di Nanni Moretti. Brividi e pelle d'oca, da vedere e consigliare.
Un bicchier d'acqua per schiarire la gola e siamo già
all'altezza delle spiagge brasiliane a 870 km/h, distanti 10686 km
dal polo nord (se ciò vi può interessare), con una luce fortissima
che costringe tutti a chiudere i piccoli oblò per non diventare
ciechi. Dopo aver ridormito una quantità di tempo poco
quantificabile per via del fuso orario, del sole sempre più
forte, della colazione servita verso le sei di sera (aperte le
indagini sui tortini dolci serviti da TAP), si è ormai ad un passo
da Porto Alegre. Arrivato all'aeroporto con far da zombie mi dirigo
alla dogana, non capisco nulla di ciò che mi viene detto (e
viceversa: l'inglese lo sanno in pochi) ma, chissà come, cambio 50
euro, pago un taxi per la estaçao rodoviària nonché il bus per
Santa Maria per un totale di 94 soldini brasileiri.
Col tassista faccio la mia prima chiacchierata in portoghese, ovvero un italiano misto a spagnolo che si regge grazie alle similitudini delle lingue romanze. Una volta salito sul bus Planalto il tempo si ferma. La direzione è l'entroterra brasiliano, una città brasiliana di nome Santa Maria che si raggiunge in circa 4 ore. Ammetto di aver pensato più volte: “Qua finisco in mezzo l'Amazzonia. Buona notte a tutti gli africanisti che decidono di venire in Brasile.” Il paesaggio è spettrale, non c'è nulla ma proprio nulla per chilometri e chilometri se non una fetta di luna che s'immerge nel cocktail brasileiro mentre il Marcopolo sfreccia in the middle of nowhere. Quando ci fermiamo ad una lancheria della estaçao rodoviaria “Cachoeira do Sul” penso davvero d'essere finito sulla luna, di avere sbagliato strada, di finire in Uruguay o su Marte. Mi consolo contando le ore del viaggio: siamo oltre la giornata intera, per precisione 28 ore di sfacchinata. E' mezzanotte, mi affaccio a chiedere all'autista in lingua marziana dove diavolo siamo. Manca ancora un'ora, a quanto pare. Mi risiedo a guardare le stelle nitide su un orizzonte nero come la pece mentre sogno un cartello che mi dica: “cazzo, finalmente sei arrivato!”. Dopo un'ora e mezza mi giro verso un vecchietto e domando di Rio Grande do Sul. “...è la prossima stazione...”- risponde, mentre penso: ”Non è possibile...siamo in Chile oramai!”. Mi decido a fermarmi.
Scendo, prendo i bagagli, vado verso l'interno della stazione, giro l'angolo e chi trovo? Una decina di ragazzi AIESEC+Germano! Un miraggio nel deserto che si rivela reale solo quando iniziano a farmi girotondo chiuso nel mezzo ed il sonno arretrato svanisce quasi del tutto. Bella sorpresa, cacchio!
A seguire mi accomodo da Fernando per la serata, con il quale mangio un piatto di riso, pollo, formaggio parlando di Roma, della Fiat, della crescita del Brasile e dei “lievi costumi” delle donne brasileire in perfetto italiano (poiché ha studiato alla Sapienza di Roma). Come ogni buon viaggio, la giornata si chiude con la stesura bloggeristica.
Sono arrivato, cansado, a horas...del resto se ne riparlerà domani, companheiros...
Col tassista faccio la mia prima chiacchierata in portoghese, ovvero un italiano misto a spagnolo che si regge grazie alle similitudini delle lingue romanze. Una volta salito sul bus Planalto il tempo si ferma. La direzione è l'entroterra brasiliano, una città brasiliana di nome Santa Maria che si raggiunge in circa 4 ore. Ammetto di aver pensato più volte: “Qua finisco in mezzo l'Amazzonia. Buona notte a tutti gli africanisti che decidono di venire in Brasile.” Il paesaggio è spettrale, non c'è nulla ma proprio nulla per chilometri e chilometri se non una fetta di luna che s'immerge nel cocktail brasileiro mentre il Marcopolo sfreccia in the middle of nowhere. Quando ci fermiamo ad una lancheria della estaçao rodoviaria “Cachoeira do Sul” penso davvero d'essere finito sulla luna, di avere sbagliato strada, di finire in Uruguay o su Marte. Mi consolo contando le ore del viaggio: siamo oltre la giornata intera, per precisione 28 ore di sfacchinata. E' mezzanotte, mi affaccio a chiedere all'autista in lingua marziana dove diavolo siamo. Manca ancora un'ora, a quanto pare. Mi risiedo a guardare le stelle nitide su un orizzonte nero come la pece mentre sogno un cartello che mi dica: “cazzo, finalmente sei arrivato!”. Dopo un'ora e mezza mi giro verso un vecchietto e domando di Rio Grande do Sul. “...è la prossima stazione...”- risponde, mentre penso: ”Non è possibile...siamo in Chile oramai!”. Mi decido a fermarmi.
Scendo, prendo i bagagli, vado verso l'interno della stazione, giro l'angolo e chi trovo? Una decina di ragazzi AIESEC+Germano! Un miraggio nel deserto che si rivela reale solo quando iniziano a farmi girotondo chiuso nel mezzo ed il sonno arretrato svanisce quasi del tutto. Bella sorpresa, cacchio!
A seguire mi accomodo da Fernando per la serata, con il quale mangio un piatto di riso, pollo, formaggio parlando di Roma, della Fiat, della crescita del Brasile e dei “lievi costumi” delle donne brasileire in perfetto italiano (poiché ha studiato alla Sapienza di Roma). Come ogni buon viaggio, la giornata si chiude con la stesura bloggeristica.
Sono arrivato, cansado, a horas...del resto se ne riparlerà domani, companheiros...
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