3-14 aprile, Day O. O novo começo. Palle al balzo, traslochi, feste e corone d'alloro.

      Con il magnifico “Chulahoma. The ghost of...“ delle amate chiavi nere («from Akron, Ohio!») nelle orecchie chiudo lo zaino da 50 litri ed il trolleyino carico di ciarpame tecnologico alla volta dell'oceano Atlantico e di Porto Alegre (o meglio, Santa Maria Rio, Grande do Sul), Brazil. Un viaggio fresco di Master Degree e scatoloni di affetto stipati nell'armadio, la definizione wikipediana di Saudade davanti gli occhi e la sensazione di avere lasciato qualcosa alle spalle. Grilli parlanti urlano per la testa con un rauco insistente monito simile allo scat singing armstrongiano.   
        Penso ancora a miracoli, profezie, trance estatiche equatorial-africane mentre tutto ciò che mi circonda sembra prendere i contorni di una grande bozza sfumata a carboncino. Il grande trasloco torinese, i magnifici festeggiamenti con i colleghi antropologi, la preparazione burocratica alla scappata brasiliana. Mi sento galleggiare in un cielo lattiginoso dal fascino avvolgente, senza fretta di capire cosa stia succedendo, simile al dondolio cosmico de “2001: A Space Odissey” mischiato a Pyramid Song dei Radiohead.
         Penso infine a Lévi-Strauss («si pronunzia "Stroooos"!») messo in posa per la sua fototessera brasileira e metto in spalla lo zaino, once again...



                    A Claude Lévi-Strauss, che non amava i viaggi.

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