Con il magnifico “Chulahoma. The ghost of...“ delle amate chiavi
nere («from
Akron, Ohio!»)
nelle orecchie chiudo lo zaino da 50 litri ed il trolleyino
carico di ciarpame tecnologico alla volta dell'oceano Atlantico e di
Porto Alegre (o meglio, Santa Maria Rio, Grande do Sul), Brazil. Un
viaggio fresco di Master Degree e scatoloni di affetto stipati
nell'armadio, la definizione wikipediana di Saudade
davanti gli occhi e la sensazione di avere lasciato qualcosa alle
spalle. Grilli parlanti urlano per la testa con un rauco insistente
monito simile allo scat singing armstrongiano.
Penso ancora a miracoli, profezie, trance estatiche
equatorial-africane mentre tutto ciò che mi circonda sembra prendere
i contorni di una grande bozza sfumata a carboncino. Il grande
trasloco torinese, i magnifici festeggiamenti con i colleghi
antropologi, la preparazione burocratica alla scappata brasiliana. Mi
sento galleggiare in un cielo lattiginoso dal fascino avvolgente,
senza fretta di capire cosa stia succedendo, simile al dondolio
cosmico de “2001: A Space Odissey” mischiato a Pyramid Song dei
Radiohead.
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